Più passa il tempo, più mi rendo conto del grande problema che io, e tanti miei amici e amiche afrodiscendenti abbiamo nell’usare l’italiano come lingua per esprimerci in maniera completa. Oltre i contesti lavorativi, oltre la società che c’è lo richiede.
L’italiano è la mia lingua madre, le mie prime parole ho dette in italiano, come i primi numeri, e i primi verbi. Eppure ad oggi in qualvolta penso, quando scrivo, nei momenti in cui sento il bisogno di dar voce ai miei pensieri, il mio cervello si arrotola su se stesso e trova rifugio nel comodo divano che è la lingua inglese.
Essere bilingue ha fatto si che questo esercizio diventasse sempre più comune, e sempre più facile per la mie mente, anche se non trovo in un arricchimento linguistico la vera ragione per cui io non usi l’italiano tanto quanto potrei, o forse quanto vorrei.
Qualche anno fa, al mio terzo anno di Univeristà un professore mi chiese il perchè usassi così tanto in l’inglese e perchè anche quando gli assegni potessero esser fatti italiano, io preferissi farli in inglese, “è forse una pratica evasiva”? Queste le sue testuali parole. Parole a cui al tempo non detti peso, ma che ad oggi risuonano nella mia testa come una melodia ininterrotta.
La lingua inglese come pratica evasiva; lo strumento capace di dare spazio ai miei pensieri, di dargli forma, colore, e riconoscerli pur avendolo scoperto attraverso la musica alla radio e non dalle conversazioni udite quotidianamente da quando ancora non camminavo.
Ci rifletto e mi rendo conto di come l’inglese, seppure sia una lingua coloniale , sia la lingua in cui da quando sono piccola, riesco ad oltrepassare i confini che purtroppo la lingua italiana traccia costantemente. Con i suoi verbi importanti per descrivere il mondo, i participi passati per modellare il tempo, ma mai le parole giuste per descrivere una bambina come me nel rispetto della sua identità.
Nella lingua inglese come me, tanti ragazzi afrodiscendenti purtroppo o per fortuna grazie alla storia, ritrovano un livello di rappresentazione fattuale accumulata nei secoli da chi prima di noi dell’ inglese ne ha fatto la sua lingua putativa, la SUA lingua; spesso perchè quella madre l’ha persa, dimenticata o peggio gli è stata tolta.
Una lingua universale, che noi ragazzi italiani e afrodiscendenti usiamo come arma, scudo e mezzo per allungarci verso mete dove esistiamo in maniera più larga, più rumorosa, più funzionale al nostro benessere.
Un’ arma che impugniamo con agilità, ma anche con la consapevolezza di averne un’ altra sulle spalle che forse conosciamo meglio: la lingua italiana. Sappiamo quanto non taglia, quanto incide, quanto sia grande il manico, ma anche quanto la lama non sia profonda. Ne conosciamo le lacune, e le virtù dalla nascita, eppure un’ arma inglese è più facile da maneggiare, è più facile da riconoscere. Quando la impugni, è abbastanza affilata, incide quanto basta, ma soprattuto il suo manico ha abbastanza spazio per sostenere la tua mano.
E’ bello sentirsi, sostenuti, supportati, ma per farlo bisogna, conoscersi, riconoscersi, vedersi. Se questo non avviene, l’arma che portiamo sulle spalle sarà sempre troppo scomoda da utilizzare per quanto uno voglia provarci.
Vedersi oltre le lacune di un vocabolario per cui non esisti nei giusti termini, riconoscersi attraverso la memoria e la storia di un paese le cui origini proprio come nel Continente si intrecciavano e continuano ad intrecciarsi perchè è così che è stato creato l’ attuale tessuto sociale.
Andare oltre, e riappropriarsi di una lingua che per quanto al supermercato, o dal dottore viene vista come un vestito portato bene è la nostra seconda la pelle. Con le sue mancanze, con le sue virtù e ad oggi l’arma di cui se il manico per me ancora non esiste, è forse possibile trovare quello più giusto in modo da poter raccontare storie nuove, le nostre storie in maniera autentica e reale.